Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 05 giugno 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Nona Parte)

 

16. Dal corpo che si è al corpo che si ha in un’avventura avvincente e tormentata nel corso di due millenni. Il greco omerico aveva almeno dieci parole diverse per designare il corpo, e i grecisti, considerando tutto l’arco temporale della lingua antica dall’epoca arcaica, ne hanno contate non meno di venti. Ciascun termine rende una dimensione o un’attribuzione funzionale descrittiva di proprietà fisiche, stati biologici o ruoli in rapporto a circostanze. Ai due estremi della gamma abbiamo schema (σχῆμα) per il corpo dinamico, ovvero i quattro arti in movimento, e soma (σῶμα), che ha dato origine a tutti i derivati nelle lingue moderne riferiti al corporeo, ma che in greco indicava il feretro, il corpo del morto.

Non esisteva un vocabolo che avesse il valore semantico-concettuale del nostro “corpo”, neutro, generico e implicitamente distinto dalla dimensione psichica. Una simile soluzione lessicale era in uso presso i barbari, ma è difficile se non impossibile ricostruirne la calibratura semantica in quella realtà. In ogni caso, la traccia linguistica della cultura greca può essere di aiuto per comprendere la lenta evoluzione da una concezione in cui il corpo è la persona con tutti suoi attributi, incluso il “soffio vitale”, lo spirito o l’anima che sia, fino alla concezione attuale di “oggetto del soggetto”. L’inizio del cambiamento si può individuare nell’entrata della parola barbara di origine germanica korpse nella cultura romana, dando luogo al vocabolo latino corpus.

Il filo linguistico della storia delle parole nella diacronia dell’etimo costituisce una traccia preziosa e uno strumento insostituibile per accedere a dimensioni di senso della mente dei soggetti storici, ma varca appena il limite prossimo dell’orientamento e ci lascia al principio di un cammino fatto di scelte nel dedalo di vie che si aprono e si intersecano tra gli innumerevoli edifici della cultura, tanto numerosi e complessi da consentire la visita, nel tempo della vita di un singolo, solo di una piccola parte. Scegliendo in base al riferimento del sapere rinascimentale in cui era immerso Leonardo da Vinci, provo a varcare la soglia di qualcuna di queste strutture per cercare di scorgere frammenti di senso nell’atmosfera antica del vissuto corporeo.

Non è semplice, oggi che si vive una tendenza generalizzata alla reificazione del corpo riflessa nella facilità con la quale si arriva ai rapporti sessuali tra semisconosciuti[1], rendersi conto di come fosse intesa la corporeità nelle varie epoche della storia. Infatti, la perdita negli ultimi cinquant’anni di valori psichici o spirituali intimamente connessi al corporeo per duemila anni di civiltà cristiana, ha determinato una banalizzazione del nostro essere fisico che non ha equivalenti nel passato e, anche se paragonata in modo appropriato a comportamenti documentati per le società pagane, in realtà non corrisponde affatto ai principi dei popoli pagani.

Ad esempio, come abbiamo visto in precedenza, la castità e la verginità rappresentavano un valore nel mondo ellenistico romano dominato dalle culture epicurea e stoica, come era stato già in Atene e nelle altre maggiori città della Grecia antica dove, sebbene vi fossero cinque classi di prostituite, nemmeno quelle del più alto livello, ossia le etere concubine fisse di un solo uomo, potevano godere di tutti i diritti civili di cui godevano gli uomini e le donne rispettosi delle leggi e della propria dignità. Sì, perché il dominio del desiderio erotico e l’esclusività dei rapporti fra coniugi erano messi in relazione con l’onore, la rispettabilità e l’affidabilità di una persona, che si voleva poi fosse massima nei detentori di cariche pubbliche e responsabilità sociali.

In altre parole, la capacità di dominio del corpo nelle sue istanze biologiche, e in particolare il comportamento sessuale, non era considerato questione privata, ma aveva notevole rilievo sociale[2].

Nel Medioevo si era andato sviluppando un rapporto col corpo sui generis e non di rado aberrante, che si è tentato di spiegare in termini psico-antropologici quale esito di una conflittualità latente e diffusa tra principi morali e istanze istintive, ma che in realtà si offre alla riflessione contemporanea come una materia complessa, caratterizzata da una varietà di temi che suggerisce analisi secondo vari registri e paradigmi di approccio. Infatti, se cilici, cinture di castità ed autoflagellazioni possono rimandare al paolino conflitto fra legge della carne e legge del Signore, dal quale derivano misure di mortificazione e prevenzione, le punizioni corporali e lo sviluppo di un’arte e un artigianato degli strumenti di tortura al servizio di tutte le famiglie detentrici del privilegio di esercitare alta e bassa giustizia, richiede altri riferimenti interpretativi.

Come si vede alle mostre sugli strumenti di tortura medievali, la gamma delle invenzioni per infliggere sofferenze corporee e patimenti è così vasta da aver dato luogo a repertori di oggetti con tutt’altra destinazione d’uso in epoca moderna: dall’altalena alla ruota panoramica sono tanti i giochi dei nostri giorni che derivano da strumenti di tortura.

Non si può certo accontentarsi, come spesso si faceva nel secolo scorso, di ricondurre un fenomeno così complesso a una singola ipotesi di sapore psicoanalitico, quale il rinforzo di istanze sadiche innescato dal diffuso masochismo di autoaccusa dei penitenti. Come se non esistesse il filtro di giudizio della coscienza del singolo e il livello di cognizione sociale in cui operano le leggi, e non si stesse considerando un’epoca in cui, in seno alla cultura cristiana, si combatteva uno scontro secolare sulla legittimità dell’uso della forza.

Nel corpo, come dimensione simbolica vissuta, e sul corpo, quale terreno di scontro ideologico, nel Medioevo si combatte una battaglia tra cultura e sottocultura che complica di molto il conflitto interiore tra istinto e ragione. La storia non è nuova, perché sono in questione “le forze oscure di quel cosmo che tanto temevano gli antichi pagani”[3], e che i Romani affrontavano a colpi di condanne a morte per superstizione, senza venirne a capo.

Riti magici con zampe, denti, pelo e altre parti di animali accomunavano i druidi mitteleuropei ai maghi ellenici delle grotte di Partenope devoti a Dioniso, e usavano feticci, teschi e resti umani per esercitare a distanza influenze benefiche o malefiche sul corpo: per accrescere la sua energia o privarlo di forza[4]. Questa sottocultura, inconsapevolmente sostenuta dalla influenzabilità psicologica dei più deboli, era protetta dal tabù del sacro arcaico, che si avvaleva del segreto e imponeva condotte rituali di silenzio come nella forma prototipica del mysterion (μυστήριον)[5]. Nell’Alto Medioevo si configura e si afferma la soluzione concettuale e spirituale di demonizzare il sacro arcaico e ricondurre a Satana tutto ciò che apparteneva alle tradizioni etniche di maleficio magico. “Il culto degli idoli venne etichettato come manifestazione satanica: l’idolo stesso è un demonio. Ugualmente, i filtri, gli incantesimi, le sortes sanctorum e ogni altra magia vennero rappresentate come demoniaci. I Concili di Agde (506) e d’Orleans (511) condannarono gli indovini e le pitonesse, come «posseduti dal demonio»”[6].

Le forme di sottocultura magica, originate quali tradizioni residuali dalle culture di sostrato in molte aree dell’entroterra italiano ed europeo, detenevano l’esclusiva della gestione immaginaria delle energie cosmiche espresse quali forze occulte in grado di agire sull’uomo e attraverso l’uomo: l’espressione “ha il diavolo in corpo” nasce per descrivere una sovrabbondanza di energia che sembrava non appartenere alle risorse naturali dell’organismo e, in quanto tale, era demonizzata.

Un altro aspetto del tutto peculiare nella concezione del corpo, che si separa dall’anima con la morte ma che all’anima rimane congiunto durante la vita e nella dimensione ultraterrena della santità, è la custodia del valore di identità della persona cui appartiene anche nella sua più piccola parte: nel Medioevo nasce il concetto di reliquia, il culto di resti umani di santi e l’uso del potere simbolico nel valore di attualità a sostegno dell’esperienza di realtà nella fede.

Nel decimo secolo calavano dalle terre germaniche a Roma tanti vescovi con la precisa missione di acquistare reliquie di santi, e accadeva spesso che non si rivolgessero ai detentori dei resti autentici venerati – che con ogni probabilità non li avrebbero mai venduti – e acquistassero dei falsi da truffatori di mestiere[7].

Nell’era cristiana la concezione del corpo, che diventerà nei secoli quella di tutto il pensiero occidentale, aveva un’importanza cruciale perché era al cuore della dottrina stessa, in un modo non intuitivamente comprensibile e che cercheremo di scoprire avvicinandoci con prudente discrezione alla sala del solenne Concistoro dell’11 agosto 1264, indetto da Papa Urbano IV sulla spinta dell’emozione popolare riverberata in tutta la Chiesa da un evento miracoloso accaduto in Belgio e reso pubblico dall’Arcivescovo di Liegi e, soprattutto, a causa di dispute suscitate da una tesi teologica che aveva affascinato talmente tanti teologi claustrali, presbiteri e pievani da minacciare uno scisma[8].

Le consultazioni come questa avevano un’importanza epocale perché in Italia e in tutta Europa, con la nascita delle università fondate spesso da ecclesiastici, si stava costituendo un nuovo potere del sapere, non di rado in contrasto con l’autorità acquisita dagli ordini monastici che dominavano la Chiesa. Per molti cardinali, arrivati anche dai paesi più remoti dove era giunto il cristianesimo, si trattava di un’occasione unica per incontrare e conoscere gli autori dei codici di dottrina diffusi per copie a mano recapitate dopo mesi o settimane di viaggi disagevoli e rischiosi, per incontrare i protagonisti del governo della Chiesa e ottenere la possibilità di conferire personalmente con il Papa.

Noi facciamo capolino da una porta secondaria della sala dalla quale vediamo il consesso dei cardinali assisi dopo il canto di introito, durante il lungo e profondo silenzio meditativo in cui ciascuno dei presenti è assorto nell’invocare l’aiuto dello Spirito Santo per prendere decisioni conformi al volere di Dio.

Con un cenno del capo, il Papa indica ai più vicini che è giunto il momento di avviare i lavori, e un domenicano d’aspetto curato nell’elegante bianco e bruno della tonaca nuova, con stile impeccabile e movimenti sicuri, raggiunge il punto di risonanza acustica della sala destinato agli oratori, con tutti gli occhi puntati su di lui: è San Tommaso d’Aquino che, senza tanti preamboli, presenta al sacro consesso un suo caro amico, dimesso alquanto, che si appressa all’ambone con passo incerto, quasi timoroso. È un frate di un ordine mendicante, che da poco è stato ammesso a dignità ecclesiale e magistrale, e può tenere una dissertazione alla presenza del successore di Pietro per lo sponsio, ossia la garanzia, offerta dall’autore della Summa Teologica. Tommaso lo presenta come lo studioso maggiore che lui conosca del corpo dell’uomo alla luce della sapienza divina, come colui che può, più di ogni altro, aiutare a comprendere i rapporti tra la materialità corporea delle membra e la sostanza spirituale.

L’umile francescano recita come un’omelia domenicale la lunga dissertazione alla quale ha lavorato per anni, offrendo all’ascolto attento e allo sguardo ammirato di tutto l’uditorio una sequenza di alti concetti teologici, esposti con l’efficacia di quella parresia che rende semplici i dotti e porta nel cuore di chi ascolta un contenuto d’amore non inferiore a quello di dottrina. Per capire il corpo dell’uomo, spiega il frate, bisogna inginocchiarsi attenti davanti al mistero del corpo di Cristo che, in ciò che l’uomo può comprendere, chiarisce perfettamente il rapporto tra il divino dell’anima e la materia delle membra.

Dopo un breve conciliabolo con i cardinali cerimonieri e Tommaso d’Aquino, Papa Urbano IV, che venti giorni prima ha istituito la festività del Corpus Domini[9], ammirato e commosso acquisisce lo scritto del frate e ne legge il titolo: Sermo de Sanctissimo Corpore Christi. Con l’approvazione di tutti i cardinali, dichiara che nella bolla di magistero pastorale riporterà i concetti espressi nel sermone[10].

Usciamo ora dal concistoro e, leggendo la documentazione storica, conosciamo l’identità dell’umile francescano: San Bonaventura da Bagnoregio, che fu tra i fondatori dell’ordine dei seguaci di San Francesco e fu nominato cardinale e consacrato vescovo solo un anno prima della morte. Bonaventura era noto per aver scritto la cronaca degli atti della vita del Poverello di Assisi, quel documento biografico unico, tramandato col nome di Legenda Maior e adottato da Giotto di Bondone come fonte per il suo ciclo delle storie sulla vita del santo nella Basilica di Assisi.

L’autore del Sermo sul Corpo del Signore fungeva da priore nel convento di Orvieto, dove erano giunti i seguaci del Poverello dalla Scarzuola, nota perché il santo vi aveva costruito una capanna nel punto esatto in cui, dopo aver piantato una rosa e un alloro, sgorgò miracolosamente una fonte[11].

Bonaventura e Tommaso, nonostante il differente stile esistenziale, vivono per molti versi vite parallele, in gran parte a motivo dell’amicizia che li lega: entrambi sono docenti allo Studium Orvietano, entrambi collegano la sapienza patristica alla ragione filosofica greca, entrambi insegnano alla Sorbona e, infine, entrambi non accettano il ruolo arcivescovile metropolitano, in quanto Tommaso rifiuta ripetutamente la nomina ad Arcivescovo di Napoli e Bonaventura si appella al Papa con varie istanze per rifiutare l’incarico di Arcivescovo di York[12].

La concezione del corpo e dello spirito che permea la neoplatonica Accademia Fiorentina e ispira gli artisti del Rinascimento nasce proprio dallo studio di questi due dottori della Chiesa[13].

Facciamo ora un temporaneo salto in avanti di due secoli: ritroviamo Leonardo da Vinci mentre ha deciso di sospendere l’esecuzione dell’Adorazione dei Magi per andare a Milano, attratto dalla prospettiva di rappresentare la purezza del corpo quale madre della bontà, quando viene raggiunto dalla notizia della canonizzazione di Bonaventura da Bagnoregio da parte di Papa Sisto V: era il 1482.

In quegli anni erano studiate e seguite le tesi sul rapporto tra fede e ragione che il francescano aveva brillantemente risolto in chiave platonica e agostiniana. Leonardo conosce Bonaventura come deus ex-machina della teologia tomista sull’Eucaristia e protagonista di quell’evento della storia della cultura caratterizzato dal superamento del valore simbolico delle specie del pane e del vino, attraverso la dottrina della transustanziazione, che rovescia il senso comune, chiedendo al fedele di non credere ai propri occhi e non desumere la sostanza dall’aspetto, ma dalla fede. Con le parole della consacrazione si trasferisce la sostanza del corpo e del sangue del Signore in quelle due specie, che non cambiano aspetto, ma da puro simbolo diventano nella loro intima struttura altro da sé, ovvero reale presenza di Cristo.

È diverso da un miracolo che si caratterizza nell’evidenza materiale di un fenomeno di realtà esperito con i sensi: il paralitico che si alza e cammina, il cieco che vede, il lebbroso risanato, il morto risuscitato. Nel tipico miracolo evangelico si è testimoni di un fatto, che rimane inesplicato per ciò che concerne il modo, ovvero il processo soprannaturale che lo ha reso possibile; nel mistero eucaristico non c’è alcun evento che si offra alla verifica empirica. Anche il sacerdote che consacra non ha nessun riscontro materiale, in una condizione paragonabile a quella della celebrazione di un sacramento.

Oggi possiamo osservare che la fede richiesta per credere nella reale presenza divina nelle specie eucaristiche è paragonabile a quella necessaria per credere nell’anima immortale, nella vita eterna e in tutte le promesse di Nostro Signore Gesù Cristo. Dunque, la teologia tomista introduce, attraverso l’atto di fede costantemente rinnovato nella partecipazione alla mensa eucaristica, un frequente esercizio di attualizzazione nella coscienza della verità della presenza divina, in grado di determinare “effetti di realtà”.

 La riflessione teologica che porta Leonardo a spostare il centro del suo interesse dall’evento compiuto dell’incarnazione con la natività e l’epifania – ossia la rivelazione e la propagazione attraverso i Magi – al modello di colei che nutre in sé il Dio nascosto nell’integrità del corpo e dello spirito, si conclude l’anno successivo con la stipula del contratto per la Vergine delle rocce, da eseguire con l’aiuto di due pittori di raffinata tecnica, quali Evangelista e Ambrogio De Predis.

Ma ritorniamo a due secoli prima, all’epoca del concistoro, quando nascono alcuni concetti e princìpi, poi consolidati e trasmessi nell’insegnamento di epoca rinascimentale.

Il filosofo francese Berengario di Tours aveva promosso una scuola di pensiero che da circa duecento anni sosteneva e diffondeva la tesi che la presenza di Cristo nell’Eucaristia non era reale come nelle celebrazioni dell’ultima cena di Pietro e Paolo, ma solo simbolica. Nella diocesi di Liegi si custodiva la rivelazione apostolica da oltre mille anni nella sua originaria autenticità, così che al dilagare in Francia e in molte altre parti d’Europa della tesi di Berengario della mensa eucaristica come una semplice tradizione o “rito della memoria”, l’Arcidiacono di Liegi Jacques Pantaleon e l’Arcivescovo Roberto de Thourotte, sostenuti dal movimento di opinione creato dalla suora Giuliana di Cornillon, indissero un concilio diocesano col quale istituirono per la città di Liegi la solennità teologica e pastorale del Corpo e Sangue del Signore, in cui i fedeli erano invitati a meditare sul mistero della reale presenza di Cristo nell’Eucaristia.

Agli scettici seguaci di Berengario sembrò una reazione dettata da rivalità, e proseguirono nel diffondere la tesi del simbolismo culturale. Intanto, l’Arcidiacono di Liegi Jacques Pantaleon fu eletto Papa col nome di Urbano IV. Nel 1263 accadde un evento straordinario che conosciamo dalla narrazione consegnata alla storia da Sant’Antonino, l’Arcivescovo di Firenze cugino del Piovano Arlotto[14], la cui esposizione ispirò Raffaello Sanzio.

In breve: Pietro da Praga, sacerdote boemo dubbioso per scetticismo razionalistico circa la reale presenza del Signore in ostia e vino consacrati, si recò in pellegrinaggio a Roma per impetrare la grazia di vincere la tentazione di non credere, pregando sulla tomba di Pietro. Dopo l’orazione, sentendosi rassicurato, intraprese il viaggio di ritorno ma, nel fare tappa a Bolsena, fu nuovamente assalito dai dubbi. Qui, per dovere sacerdotale, il giorno seguente celebrò la messa nella Grotta di Santa Cristina e, all’elevazione dell’ostia, vide la particola sanguinare copiosamente sul corporale: sconvolto dall’accaduto, in preda al panico avvolse l’ostia nel corporale di lino e la portò di corsa in sagrestia, lasciando cadere inavvertitamente delle gocce di sangue sulle lastre di marmo del pavimento, dove furono visibili a tutti. Pietro da Praga si recò immediatamente a Orvieto da Papa Urbano IV[15] a riferire l’accaduto. Il Papa mandò subito a Bolsena il Vescovo di Orvieto per accertare la veridicità del racconto ed eventualmente recuperare reliquie; ottenuta ogni conferma, convocò il concistoro del quale ci siamo occupati.

Urbano IV affidò il compito di redigere i testi per la liturgia delle ore e l’officio per la messa della festività a San Tommaso d’Aquino, che compose il celebre inno Pange lingua, le cui ultime due strofe, Tantum Ergo Sacramentum, sono ancora cantate dai fedeli al termine della celebrazione liturgica che si concluda con la benedizione eucaristica.

Il Miracolo di Bolsena, al quale Raffaello Sanzio dedicò il superbo affresco nella Stanza Vaticana di Eliodoro nel 1512, merita qualche considerazione in chiave scientifica, perché è stato oggetto di particolare attenzione, di rivisitazioni, di interpretazioni e commenti da parte di molti, spesso in programmi televisivi di taglio giornalistico che, per mantenere viva l’attenzione, tendono a seguire il format della controversia irrisolta.

 

17. Invece di accertare e verificare alcuni hanno adottato il sapere scientifico per negare il miracolo. Johanna C. Cullen della Georgetown University di Washington avanzò l’ipotesi che le macchie rosse non fossero di sangue, ma si trattasse di un fenomeno microbiologico noto: il batterio Serratia marcescens, soprattutto in condizioni climatiche caldo-umide, può rilasciare su pane e focacce la prodigiosina, un pigmento rosso vivo facilmente scambiabile per sangue da un occhio inesperto[16]. La Cullen andò oltre, realizzando una simulazione di quello che lei definisce il presunto miracolo[17]. Successivamente, nel 1998, Luigi Garlaschelli del Dipartimento di Chimica Organica dell’Università di Pavia ripeté l’esperimento, dimostrando la plausibilità della tesi della Cullen. Nel 2000 furono compiuti esperimenti simili da J. W. Bennett e Ronald Bentley della Tulane University di New Orleans e della Pittsburgh University.

Personalmente sono sempre meravigliato dalla scarsa scientificità di studi come questi, la cui logica imbarazzante sarebbe bocciata anche per un’esercitazione di laboratorio di scuola media, ma che viene accettata acriticamente in base al pregiudizio che tutto ciò che proviene dall’interpretazione religiosa di fatti insoliti non meriti rispetto. Tutti questi esperimenti dimostrano solo che è possibile simulare il sangue con pigmenti batterici o composti chimici che colorano un fluido, non che questo sia accaduto quasi ottocento anni fa a Bolsena. Perché, se è solo possibile ingannare, o semplicemente ingannarsi, si deduce che è sicuramente accaduto questo?

Perché la maggior parte degli atei e degli agnostici presume che tutto ciò che i credenti attribuiscono al soprannaturale sia una faccenda di truffatori e creduloni. È possibile, certo, e tante volte si è verificato; tuttavia bisogna dimostrarlo: un preconcetto, per quanto fondato, non può essere assunto come dogma, se si vuole conoscere il vero dei fatti e non solo combattere una battaglia ideologica.

La tesi della Serratia è, a mio avviso, assolutamente insostenibile se si dà credito alla narrazione di Sant’Antonino Pierozzi da Firenze; se poi si ritiene che quella tradizione sia un’inattendibile trama leggendaria e che i fatti siano stati diversi, allora tutto è possibile. Ma, in quest’ultimo caso, di cosa si parla?[18]

Chiedo scusa al lettore, se lo conduco con me brevemente in laboratorio ma, per il rispetto che ho per la storia, per il buonsenso e per la microbiologia, sento il bisogno e il dovere di condividere alcuni elementi di conoscenza scientifica.

Serratia marcescens è un batterio patogeno Gram-negativo responsabile di numerose infezioni, identificato nel 1819 da Bartolomeo Bizio, che denominò il nuovo genere batterico Serratia in onore del fisico fiorentino Serafino Serrati. L’indicativo di specie marcescens è dovuto a una sua importante proprietà: dopo aver prodotto il pigmento rosso detto prodigiosina, marcisce velocemente sviluppando una massa fluida mucillaginosa. Già nel 1906 si è sfruttata la produzione del pigmento come marker per l’identificazione dell’attività batterica e della trasmissione.

Lo sviluppo avviene per colonie circolari di 1-3 mm di diametro e il loro colore può variare perché influenzato dalla temperatura: si hanno colonie del tutto bianche, colonie rosacee e colonie rosse. La temperatura ottimale per lo sviluppo del batterio è 37°C, ma la prodigiosina si sviluppa a temperature inferiori ai 30°C; dunque, è difficile avere allo stesso tempo uno sviluppo ottimale di colonie e pigmento, senza ricorrere a specifiche tecniche microbiologiche.

Questi elementi sono sufficienti per rendersi conto che un’accidentale contaminazione di un’ostia con un tale batterio cromogeno o produce dei puntolini rossi di circa un millimetro, oppure produce macchioline più grandi e numerose bianche, rosacee e rosse. Nulla a che fare con l’improvviso grondare di sangue che macchia il corporale e continua a gocciolare sul pavimento lasciando quelle tracce preservate, ancora visibili e venerate. Per potersi avvicinare a qualcosa di simile, pur senza il gocciolamento di fluido, sarebbe stata necessaria una quantità di batterio concentrata come è possibile averla solo in laboratorio.

Ma, ammesso anche che ci sia stata un’invasione di Serratia marcescens tale da produrre la quantità di rosso necessaria a ingannare il prelato, rimangono alcuni problemi insuperabili: il pigmento non ha mai la viscosità, la consistenza e i toni cromatici del sangue animale[19]; lo sviluppo delle colonie richiede tempo, dunque Pietro da Praga avrebbe dovuto vedere prima della celebrazione, e in ogni caso prima della consacrazione, un’ostia completamente coperta di macchie microbiologiche che, per giunta, fuori della coltura laboratoristica su piastra di Petri, sono asincrone e differenti fra loro per colore e dimensioni; l’aspetto “ammuffito” sarebbe stato evidente e l’ostia scartata; in nessun caso dei batteri che utilizzano le microscopiche quantità di acqua contenute in un’ostia potrebbero produrre, nel tempo dell’elevazione, un liquido che cola abbondantemente.

Infine, come abbiamo visto, la Serratia marcescens deve il suo nome al fatto che, subito dopo aver prodotto il pigmento, fa marcire ciò che ha parassitato generando una sgradevole mucillagine.

In realtà, il rosso della prodigiosina può essere prodotto come liquido colorante solo grazie a metodi microbiologici e, d’altra parte, molte delle fotografie dimostrative sono state scattate dopo aver intinto pane e altri farinacei in colture di Serratia e non lasciando sviluppare il batterio naturalmente sulla loro superficie come sarebbe potuto accadere nel 1263.

A proposito poi degli esperimenti di Garlaschelli, come è stato notato anche da un collega che li ha riprodotti nel suo laboratorio, sono di sicuro effetto suggestivo, ma dal vivo “sembra tutto fuorché sangue”.

Se si vuole a tutti i costi sostenere la tesi della Serratia marcescens, allora si deve ritenere che il racconto del sacerdote Pietro da Praga, giunto a noi da documenti del concistoro e da Sant’Antonino, non sia veritiero. Ma in quel caso, rimarrebbe il problema delle macchie ematiche sul pavimento.

Nonostante tutto quanto ho appena esposto, la tesi del pigmento microbiologico è considerata da molti la spiegazione definitiva, e a corredo iconografico del Miracolo di Bolsena nelle trattazioni sul web compare l’immancabile mollica di pane macchiata di rosso dalla prodigiosina.

Non è a tutti noto che, procedendo in maniera scientificamente corretta e ragionevolmente opportuna, alcuni anni fa sono state indagate direttamente le macchie prodotte dal sangue del miracolo.

Il corporale di lino del 1263, custodito nel Duomo di Bolsena, è stato oggetto di studio dal 3 febbraio 2015 al 27 marzo dello stesso anno e, impiegando i metodi ordinari per l’identificazione del sangue in medicina legale con illuminazione normale, ultravioletta e fluorescente, è stata accertata e dimostrata l’identità ematica delle antiche macchie, che mostravano la classica scissione del plasma dal siero. Gli strumenti tecnologici al servizio della scienza ci dicono dunque con assoluta certezza che, qualunque sia l’origine, umana o divina, si trattava di sangue.

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-05 giugno 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] La biologia ci dice che il rapporto copulatorio è il massimo grado di intimità fisica possibile tra un uomo e una donna (e in generale tra due individui), come tra maschio e femmina delle altre specie animali, dopo quello che esiste tra la madre in gravidanza e il bambino che si forma. Negli altri mammiferi l’atto riproduttivo è limitato al periodo estrale attraverso una regolazione neuroendocrina, mentre nella nostra specie è possibile l’arbitrio temporale, che ha consentito di usare l’atto riproduttivo per puro piacere; quel piacere che l’evoluzione ha sviluppato a difesa della specie.

[2] In epoca romana si diceva: è bene che tutte le donne siano oneste, ma la moglie di Cesare deve essere la più onesta delle donne.

[3] Michel Rouche, L’Alto Medioevo occidentale in La vita privata dall’Impero Romano all’anno mille (a cura di Philippe Ariès e Georges Duby) p. 398, Edizione CDE, Milano 1987.

[4] A questa tradizione attinge anche la rappresentazione di astratte forze aggressive, distruttive o di difesa del soggetto come animali feroci, spesso chimerici o di fantasia, quali i draghi. Nel Rinascimento si tenderà a sottrarre al demoniaco questo immaginario, riportandolo nella figurazione dell’arte, come nell’esempio dello splendido disegno di Leonardo da Vinci raffigurante un drago che attacca un leone.

[5] La radice μύω dà origine ai termini che indicano il mutismo volontario nel senso di μυεω, ossia mi chiudo, taccio.

[6] Michel Rouche, L’Alto Medioevo occidentale, op. cit., p. 398.

[7] Questo spiega il grande numero di reliquie risultate false agli accertamenti disposti dalla chiesa nelle cattedrali dell’Europa settentrionale (Franco Cardini).

[8] La tesi, che sarà esposta più avanti, si rifaceva a Berengario da Tours.

[9] Per esteso: Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. Fissato il giovedì dopo la solennità della SS. Trinità.

[10] La bolla Transiturus de hoc mundo, che fa un cauto riferimento alla dichiarazione della suora agostiniana Giuliana di Cornillon di aver ricevuto dal Signore la richiesta di istituire una festa della S. Eucarestia, fissa la solennità del Corpus Domini. La bolla riporta la data del concistoro, ma fu promulgata solo l’8 settembre; il 2 di ottobre, a Deruta, Urbano IV morì.

[11] Alla Scarzuola, dove avvenne il miracolo della fonte narrato con tutti gli altri atti da San Bonaventura, si conserva il ritratto più antico di San Francesco, ripreso dal vero.

[12] Differente la concezione estetica: il francescano di Bagnoregio, come Francesco, vedeva nel bello della natura il Bellissimo; il domenicano di Aquino considera la bellezza un attributo della bontà divina. Entrambi ritengono che l’esperienza della bellezza possa essere concessa in dono, in aggiunta, a coloro che abbiano cercato in primo luogo il regno di Dio (cfr. Matteo 6, 24-34.).

[13] San Tommaso d’Aquino era chiamato Doctor Angelicus e San Bonaventura fu denominato Doctor Seraphicus.

[14] Sant’Antonino Pierozzi fornì anche il resoconto del miracolo eucaristico di Parigi del 1290, per la conoscenza dei cristiani del XV secolo.

[15] Uno dei pochi Papi che non ha mai risieduto a Roma.

[16] Conosco il colore del pigmento della Serratia e capisco che coloro che non abbiano familiarità col sangue possano pensare a macchie ematiche, ma la possibilità di errore non sussiste per chi abbia esperienza diretta come il medico e il chirurgo.

[17] Johanna C. Cullen, The Miracle of Bolsena, ASM News 60: 187-191, 1994.

[18] Si cerca un po’ di pubblicità associando il proprio operato a un fatto celebrato per secoli nella storia.

[19] A quell’epoca si imitava il sangue, ad esempio a scopi teatrali, macinando in un olio fluido come quello di lino o quello di noce usato da Raffaello, una vermiglia pietra di cinabro.